Quanto è difficile essere gli altri.
Negli sguardi distratti ci passano storie fra le braccia, le sfioriamo come capi da boutique, come sagome da contorno per abbellire la nostra storia, mentre appoggiamo smorfie e ignominia su quelle che deturpano la nostra bellezza. In un alfabeto di aggettivi e particelle, il possesso personale sublima il tempo presente, regge ogni motivo, muove gli arti, scuote il cuore e prostituisce il senso.
Io, me e solo me stesso, tutti abiti che imbavagliano il prossimo, lo spogliano del meglio e infine lo strozzano. Belle maschere che non mostrano sorrisi, ma ci insegnano a serrare i denti per azzannare al primo errore.
Maledetto me che interferisce e ferisce: tanti altri muovono difese inascoltate, storie lontane per le nostre orecchie, pigmenti nascosti di vita, troppo bassi per essere accolti e compresi. Così se ne va il prossimo, trascurato e infangato, figlio del tempo, ubriaco di insoddisfazioni e di un compagno che l’ascolti.
Portami vino e ti offrirò una sedia su cui lasciarti andare; portami un pezzo di te senza troppo me stesso e berremo insieme.